A cura di Cristina Festari

Mi chiamo Daniel, ho 67 anni, sono un neurologo in pensione e sono affetto dalla malattia di Alzheimer (AD), sebbene ad uno stadio iniziale. Prima di completare il mio corso di neurologia, ero uno scienziato interessato allo studio della neuroendocrinologia dello stress. Ho trascorso quasi 25 anni a praticare e insegnare neurologia generale.
Il mio primo sintomo di AD si è verificato all’età di 55 anni quando ho scoperto che non riuscivo a percepire alcuni odori tenui e rarefatti, come, ad esempio, il profumo di un fiore. Nel giro di un anno ho iniziato ad avere frequenti allucinazioni olfattive che potevano durare da pochi minuti a un’ora. All’inizio questi consistevano nella piacevole fragranza del pane cotto; nei successivi 5 o 6 anni assunsero l’aroma degli agrumi, ma non furono mai spiacevoli. Mentre perdevo completamente la mia capacità olfattiva, le allucinazioni gradualmente diminuivano e circa un anno fa sono sparite del tutto.All’età di 60 anni, in modo quasi casuale, mi sono sottoposto ad un test genetico. Di prassi la restituzione dei risultati di questi test avviene solo attraverso una consulenza genetica. Io ho esplicitamente richiesto di conoscere i risultati di due geni di interesse neurologico, ossia APOE e LRRK2, perché volevo sapere se potevo essere a rischio di malattia di Parkinson, considerate le alterazioni del senso dell’olfatto di cui soffrivo. All’epoca non ero a conoscenza dell’associazione tra malattia di Alzheimer e compromissione olfattiva. Sono rimasto davvero scioccato nello scoprire di essere portatore omozigote dell’allele ε4 dell’apolipoproteina E (APOE), un importante fattore di rischio per AD. A quel tempo, non avevo apparenti problemi cognitivi.
Circa un anno dopo ho iniziato a notare piccole difficoltà di memoria, che avrei certamente ignorato se non avessi saputo dello stato di ε4 di APOE. Faticavo ad imparare il numero di telefono del mio nuovo ufficio e a volte ricordavo con difficoltà i nomi dei colleghi. Ho pertanto deciso di andare in pensione nel 2013. Avevo 62 anni.
Due anni dopo ho scelto di partecipare come volontario ad uno progetto di ricerca per lo studio della malattia di Alzheimer. Esso prevedeva alcuni test cognitivi ed esami strumentali, quali la risonanza magnetica, la tomografia a emissione di positroni (PET) per la proteina amiloide, la PET per la proteina tau, e PET di fluodeossiglucosio. Gli esiti di tutti questi esami erano concordi e compatibili con la diagnosi di malattia di Alzheimer allo stadio lieve. Successivamente ho partecipato alla sperimentazione farmacologica di uno degli anticorpi monoclonali anti-amiloidi.
La malattia di Alzheimer mi è stata diagnosticata molto precocemente e ciò, per me, è stato utile. La familiarità per AD nella mia famiglia non era chiara, perché molti miei parenti sono morti giovani per altre cause. In retrospettiva, forse una nonna e un prozio avevano probabilmente sofferto di Alzheimer. La scoperta di essere portatore omozigote di APOE è stata inaspettata e inizialmente terribile, ma mi ha permesso di prendere coscienza della malattia e quindi organizzare in modo proattivo il mio futuro. Quando mi sono sottoposto alla mia prima scansione PET per l’amiloide, sapevo di avere problemi cognitivi. Il risultato positivo della PET era stranamente rassicurante, mi ha dato la certezza della diagnosi. Mi sono accertato che il piano finanziario e le proprietà immobiliari fossero in ordine. Ho fornito istruzioni dettagliate sulla gestione medica della mia persona attraverso una procura generale e permanente. Ho modificato il mio stile di vita in modo da aiutare a rallentare la progressione della malattia, come suggerito da numerosi studi scientifici. Mi impegno a sostenere la ricerca sulle demenze sia come partecipante alle sperimentazioni cliniche che come portavoce. Parlo regolarmente con gli studenti di medicina delle mie esperienze con l’Alzheimer e incoraggio i pazienti affetti da demenza e le loro famiglie a prendere in considerazione la partecipazione a studi di ricerca.
Oggi, 13 anni dopo il mio primo sintomo di Alzheimer, mi sento ancora bene. La mia memoria verbale è inferiore al normale, ma tutti gli altri domini cognitivi sono ancora nei range di normalità. Il mio punteggio al Mini-Mental State Examination è di 30/30, ma ovviamente conosco il test a memoria (mela, penny, tavolo!), dato che, come neurologo, l’ho somministrato quasi quotidianamente per molti anni. Al Montreal Cognitive Assessment, un test che usavo raramente nella mia pratica clinica, il mio punteggio è stabile a 27 su 30. Continuo a leggere una media di 2 libri a settimana, ma ora trovo difficile ricordarne il contenuto dopo poche settimane. Annoto tutto su liste e uso strategie mnestiche per ricordare nomi importanti. Quotidianamente faccio esercizio fisico e seguo la dieta mediterranea. Cerco di rimanere intellettualmente e socialmente impegnato. Se escludo il fatto che non sono più in grado di lavorare come neurologo, l’AD allo stadio iniziale non è stato poi così male e mi auguro di avere altri 5 o anche 10 anni così, prima di entrare nella fase avanzata della malattia.

All’inizio della mia carriera di neurologo, di fronte ad un paziente preoccupato per i sintomi della demenza, tenevo un approccio rassicurante il più a lungo possibile ed evitavo una diagnosi certa a tutti i costi. A quei tempi, prima degli inibitori dell’acetilcolinesterasi, non sembrava esserci nulla da offrire. Oggi ritengo che quell’atteggiamento fosse inaccettabile allora, e certamente lo è adesso. Credo fermamente che le prime terapie efficaci, modificanti la malattia di AD, saranno rivolte alle fasi precoci, forse anche prima che i cambiamenti cognitivi siano evidenti. Noi, in quanto neurologi, dovremo impegnarci attivamente nel promuovere la diagnosi precoce, forse anche preclinica dell’AD.

Testo originale disponibile qui: https://jamanetwork.com/journals/jamaneurology/fullarticle/2724326?guestAccessKey=5aaa94ef-e3f6-4f11-b74d-18a7e4a73ebf&utm_source=silverchair&utm_medium=email&utm_campaign=article_alert-jamaneurology&utm_content=olf&utm_term=021819