A cura di Valentina Nicolosi

In una recente intervista su Radio3 Scienza, il Prof. Giovanni B. Frisoni, docente di Neuroscienze cliniche all’Università di Ginevra, Direttore della Memory Clinic dell’Ospedale Universitario di Ginevra, già direttore scientifico dell’IRCCS Istituto Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia, illustra lo stato della ricerca sulla malattia di Alzheimer (AD) e fornisce delle preziose indicazioni per contrastare la demenza.

 

Quali sono i fattori di rischio per la demenza?

Il Prof. Frisoni, citando una recente rassegna della letteratura pubblicata su Lancet, spiega che attualmente esistono 12 fattori di rischio per la demenza intesi come “tutte quelle condizioni che rendono il cervello più fragile agli insulti neurodegenerativi e, nel caso della malattia di Alzheimer, al deposito delle proteine tossiche beta-amiloide e Tau”.

I fattori di rischio accertati sono: bassa scolarità, perdita di udito, traumi cranici, ipertensione, eccessivo consumo di alcol, fumo, obesità, depressione, isolamento sociale, scarsa attività fisica, diabete e inquinamento dell’aria.

 

In che modo scolarità e ipoacusia sono fattori di rischio?

La scolarità è positivamente associata allo sviluppo di sinapsi, contatti tra neuroni che costituiscono il nodo centrale delle nostre capacità cognitive. Paragonando la quantità di sinapsi al livello di benzina presente in un’automobile, possiamo dire che le persone con alta scolarità riescono a riempire il loro “serbatoio sinaptico” più di quelle con bassa scolarità. È chiaro che, a parità di amiloidosi, nelle persone con bassa scolarità la spia della “riserva” si accende molto prima rispetto a chi ha un’alta scolarità. Allo stesso modo, le persone ipoacusiche soffrono di una riduzione degli stimoli sensoriali, indispensabili per mantenere elevato il patrimonio sinaptico.

 

Qual è l’influenza dei fattori di rischio sullo sviluppo della malattia di Alzheimer?

Il 40% dei casi di demenza potrebbero essere prevenuti agendo su stili di vita e ambiente. Questo vuol dire che in Italia su 10.000 nuovi casi di demenza ogni mese, 4.000 potrebbero essere evitati eliminando i fattori di rischio precedentemente menzionati. I restanti 6.000 svilupperebbero comunque i sintomi della demenza, ma più tardivamente. Sappiamo infatti che, a parità di insulto neurodegenerativo, in coloro che presentano fattori di rischio per demenza i primi sintomi della malattia compaiono alcuni anni prima rispetto a coloro che curano il proprio stile di vita.

Per questa ragione bisogna agire sia sui fattori di rischio che ci permettono di salvare quegli ipotetici 4.000 malati al mese, ma anche sviluppare i farmaci che impediscano lo sviluppo delle proteine neurotossiche per salvare i 6.000 pazienti che comunque svilupperebbero la malattia anche senza i fattori di rischio”.

La Comunità scientifica sta infatti lavorando incessantemente su due fronti. Il primo consiste nell’individuazione e nella riduzione dei fattori di rischio per l’Alzheimer mentre il secondo prevede lo sviluppo di farmaci che impediscano l’accumulo delle due proteine tossiche associate alla comparsa della malattia.

 

Come si può intervenire sui fattori di rischio “sociali” come la bassa istruzione o l’isolamento sociale?

“Per questo bisogna lavorare a livello di società. Noi come medici possiamo fare qualcosa dando dei consigli ai pazienti sullo stile di vita, ma la palla è nel campo dei decisori delle politiche sociali.

 

A che punto è la ricerca sui biomarcatori per la malattia di Alzheimer? 

I biomarcatori ci permettono di rilevare la presenza di proteine tossiche e di vedere l’impoverimento delle sinapsi del cervello. Tecniche come PET, risonanza magnetica cerebrale ed esami del liquido cerebrospinale sono già usati routinariamente in tutta Europa per fare una diagnosi accurata e precoce. Negli ultimi 2 anni, sono stati inoltre sviluppati dei test sul sangue attraverso cui identificare le persone con Alzheimer. Al momento questi esami sono limitati a contesti di ricerca ma a breve saranno disponibili anche per l’uso clinico”.

Il Prof. Frisoni si dichiara entusiasta per la prossima disponibilità di questi esami ematici ma esorta a un loro utilizzo coscienzioso, consapevole e non esteso indiscriminatamente a tutta la popolazione generale. “Come tutti gli strumenti potenti, questi esami devono essere ben utilizzati altrimenti si rischia di fare diagnosi di malattia di Alzheimer anche persone che non svilupperanno mai sintomi cognitivi.”

 

È possibile ascoltare l’intervista al seguente link:

https://www.raiplayradio.it/audio/2020/08/Contrastare-la-demenza-ae24f3ff-415c-470a-a35b-344820eb3afa.html

Studio citato:

https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30367-6/fulltext#%20